Lulù

  • di Redazione
  • 7 Dicembre 2018
  • La collana di perle di Giulia

La Collana di Perle di Giulia si impreziosisce di un contenuto speciale: un racconto che Giulia Muntoni vuole condividere con noi

La prima volta che l’ho vista fissava il vuoto, spettinata e assorta. Si vedeva che aveva pianto a lungo; gli occhi gonfi erano diventati di un verde grigio intenso e cupo, simile al mare appena prima di una tempesta. Le lacrime le si erano asciugate sulle guance, senza che nemmeno le rimuovesse, e avevano formato dei rivoli più chiari sulla pelle, lavando via il poco trucco che le ravvivava il viso. Ora so che mi aspettava da molto tempo ma non si scompose, quando arrivai. Era tutta intenta a tormentare con le dita il petalo di un fiore d’avorio applicato a un braccialetto, il suo preferito, che non era riuscita a mettersi. Come prima cosa, mi avvicinai piano a quella creatura fragile e profumata e, sfilandole il braccialetto dalla mano, glielo allacciai. Solo allora i suoi occhi seri si posarono su di me, come se, per la prima volta da quando ero apparsa, registrassero la mia presenza.

Era maligno, le avevano detto e, mentre le spiegavano i dettagli, illustrandole le opzioni, lei fissava la dottoressa e l’amica che l’aveva accompagnata in ospedale ma non sentiva una parola. Non era più lì, tra quelle pareti bianche e i pavimenti di linoleum verde chiaro. Era già lontana, in quel luogo mistico e remoto, a lei allora quasi sconosciuto, in cui ci si ritira quando si vuole stare con se stessi e lasciare fuori il mondo. Quando, dopo mesi di ulteriori accertamenti, le avrebbero confermato che l’intero seno andava rimosso, lei avrebbe pensato con amara ironia che da sempre sua madre suggeriva un "ritocchino" da quel lato, il più piccolo dei due. Non sapevo da dove cominciare, e neanche se cominciare, cosa dire che potesse minimamente fare una differenza, dopo un colpevole silenzio di anni. Allo stesso tempo, però, non volevo che intuisse il mio sentirmi inadeguata, perché lasciarla abbandonata a se stessa in un momento come questo sarebbe stato davvero al di là di ogni perdono. Eppure, sapevo che quella piccola donna aveva tanto da insegnarmi. Nei suoi occhi stanchi c’era quella consapevolezza sicura e irriverente di chi ce l’aveva sempre fatta e si preparava a farcela di nuovo, a sopravvivere all’ennesimo colpo di scena del destino. Ma, forse, questa volta c’era anche qualcos’altro, qualcosa che non avevo mai notato: una luce di rivalsa. Con movimenti lenti e calibrati, provai ad abbracciarla. Ma lei si ritrasse. Mi avrebbe in seguito ricordato che c’è un tempo per ogni cosa, e quello non era il nostro. So che non avrebbe avuto paura di morire. Non perché non temesse la morte ma perché era già impegnata a rivedere meticolosamente ogni dettaglio del loro "piano". Chemio, operazione e altra chemio. Anzi no: mastectomia prima e chemio poi. Non si volevano decidere. Le avrebbero parlato delle varie fasi come se lei non fosse presente, come se non fosse il suo quel corpo che stava per scoprire, per mano loro, cosa significasse davvero essere malata. Me ne andai via senza insistere, quel giorno, conscia di non poter accampare alcun diritto su quell’abbraccio rimastomi abortito dentro il petto, mentre spiccavo il volo verso di lei. Ma la seguii sempre, quel mese così come ogni giorno dei lunghi undici mesi successivi. Quando venne il momento, durante quel maggio temperato, in cui i capelli rimasero copiosi sul cuscino, e lei pianse fino all’ultima delle sue lacrime, prima di ritrovare la determinazione di un leone e chiedere a un’amica di restituirle il potere della scelta, rasandole la testa. E quando, ad ogni chemio, vinceva stoicamente, dopo giorni di battaglia con le ombre, quella stanchezza innaturale che la terrorizzava, per poi ripristinare la sua corazza di serenità. Allora, rifiorendo sotto quei suoi foulards di seta colorata, regalava sorrisi alle sue compagne di reparto, o al commesso di un negozio, o ad un’amica, con la stessa gioia carica di speranza con cui i bambini scartano i regali alla Vigilia di Natale, ed è lontano il disappunto, e ogni magia sembra un po’ più possibile. Fu lei a trovare me. Mi venne a cercare non appena si sentì pronta. Fu solo allora che capii, con una trepidazione mista a sgomento, che neanche lei mi aveva mai persa di vista. Questa volta, però, non ci fu il tempo per sguardi silenziosi. Era un fiume in piena, parlava fitto fitto come se temesse che all’improvviso il tempo a disposizione potesse finire. Letteralmente. Ma non c’era angoscia nel suo tono, bensì entusiasmo ed attenzione. Scandiva a malapena le parole, usava metafore colorite, preamboli infiniti. C’era calore nella sua voce, curiosità nei suoi occhi sorridenti. Era come se tra di noi il tempo non fosse mai passato, come se io potessi magicamente dimenticare di aver fallito e aver mancato di stringerla a me nelle mille occasioni in cui piangeva. Soprattutto, era come se lei, non solo potesse, ma volesse perdonarmi. Fu con questo mio pensiero, sicuramente suggeritole dai miei occhi dolenti, che si arrestò. Così, di colpo come aveva iniziato. Mi stava raccontando gli infiniti modi in cui la sua vita era stata ribaltata dalla malattia proprio come la nera terra resa fertile dall’aratura. La sorpresa con la quale si era resa conto di che strana benedizione le fosse capitata, laddove tutti si aspettavano che un baratro la risucchiasse. In fondo, erano cose che sapevo, ma le riascoltai volentieri. Adesso, era il mio turno. Avrei voluto l’eloquenza con cui lei si era espressa ma, guardando dentro quegli occhi verdi uguali ai miei, si sgretolarono, uno dopo l’altro, tutti i miei ragionamenti. Pensai al Piccolo Principe e a quella rosa che lui, forse per troppo amore, teneva chiusa sotto una campana di vetro. E all’improvviso mi sembrò ovvio, quasi banale, che non fosse stata negligenza la mia, solo eccessiva disciplina. Pensando di proteggerla, l’avevo trascurata. Se solo avessi espresso una frazione dell’orgoglio che provavo nei suoi confronti, forse sarebbe stata rinfrancata dalla certezza di sapere che l’amavo. Quando parlai, tremava la mia voce. Lei si stupì di quel timore e mi afferrò la mano. "Lulù se solo ti potessi spiegare..", sussurrai. Non ce ne fu bisogno. Quella piccola grande donna aveva già capito. Quanto mi fosse mancata, quanto l’avrei voluta accanto nei periodi bui, in cui mi ero preoccupata delle esigenze di tutti tranne che delle sue. Baciandole la guancia morbida le giurai che non l’avrei mai più lasciata, che sempre, d’ora in poi, avrei lottato per lei, per non ripetere i miei errori folli. "L’unico errore davvero imperdonabile" mi disse sorridendo, "è quello dal quale non impariamo niente". Così venne la gratitudine ad inondare la mia vita. Così il tumore, dissolvendo la mia paura di non sapermi amare, mi restituì a me stessa.