Il paziente non è solo "un corpo" da curare

Il paziente non è solo "un corpo" da curare

  • di Redazione
  • 27 Dicembre 2018
  • Ho smesso di pianificare...ho iniziato a vivere!

Torna l'appuntamento bisettimanale con la rubrica curata dalla nostra Daniela Cadeddu dal titolo "Ho smesso di pianificare...ho iniziato a vivere!".

Le settimane successive alla prima ecografia diventarono surreali. Continuavo a lavorare come se la mia quotidianità fosse rimasta inalterata. Osservandomi riflessa nello specchio non mi riconoscevo in ciò che stava capitando: non avevo un aspetto emaciato, non vedevo segni evidenti sul corpo e sul viso.

Ero diventata una paziente oncologica, come potevo metabolizzare un fatto del genere? Come avrei fatto a rimanere lucida e prendere decisioni? Non esisteva un corso di preparazione per affrontare la malattia! Dovevo trovare risorse interiori che non pensavo di avere, pregavo a fatica e con tanta rabbia, ma continuavo e andavo avanti.

Terminai con tutti gli accertamenti necessari e la vita mi portò a scegliere di affrontare l’intervento a Milano. Una decisione sofferta, perché non avrei avuto la famiglia al mio fianco  (e in particolare il mio Federico di appena un anno…in quei giorni mi resi conto di aver inconsciamente anteposto i miei ritmi lavorativi frenetici a tutte le prime esperienze con mio figlio, spesso rientravo a casa solo per metterlo a letto e mi chiedevo se avrei avuto l’opportunità di guarire per donargli e donarmi del tempo vero)  ma le informazioni che avevo a disposizione mi guidarono in quella direzione.  

Fino ad oggi ho parlato del primo consulto chirurgico in rarissime occasioni, solo se strettamente necessario e utile.  Non credo di aver incontrato un cattivo chirurgo, ma un uomo in un "cattivo momento" della sua giornata, o forse della sua vita! Il suo atteggiamento, il modo di comunicare, i termini che utilizzò: non si prese minimamente cura degli aspetti psicologici estremamente delicati legati alla malattia.

La diagnosi di cancro viene vissuta come una violenza interiore, ma un buon operatore dovrebbe riuscire a comunicare in modo adeguato, con fermezza certo, data la serietà dell’argomento, ma senza mai perdere di vista l’aspetto umano. Le scelte del paziente dipendono obbligatoriamente dal rapporto di fiducia che dovrà instaurare con i medici di riferimento.

Il primo chirurgo che consultai mi diede appuntamento in un tardo pomeriggio di giugno: ricordo il viso stanco di chi aveva addosso svariate ore di sala operatoria, ricordo le mani che reggevano i miei esami, ricordo un aspetto distratto che mi riempì di angoscia. Non sapevo nulla di quel medico, il suo nome mi era stato indicato da chi effettuò l’ecografia.                                                              

Provai a fare qualche domanda sul tipo di intervento, sulle tempistiche per poterlo programmare  e sulle terapie che mi aspettavano. Cercavo di trattenere le lacrime dicendogli che non mi importava dell’estetica e che avevo in mente solo il mio bimbo da crescere.

Mi rispose che c’era poco da scegliere:"…Signora chi ha mai ipotizzato un quadrante?? È molto diffuso, è vascolarizzato. Solo nel momento in cui apriremo capirò se si potrà salvare almeno la pelle o se dovremo amputare e pulire tutto. Non ho nemmeno uno spazio se non per la fine di agosto, se vuole essere operata da me la chiameranno per inserirla in una data. Ancora non sappiamo se ha intaccato le ossa e gli organi, speriamo bene!"

Mi parlò osservando l’ecografia. Quando sollevò lo sguardo verso di me si accorse che stavo per vomitare, si alzò e mi fece distendere.

Con poche frasi veloci aveva espresso concetti (per lui ormai comuni) che nella mia testa esplosero come petardi: "Le ossa, gli organi, parlava di metastasi? Mio Dio ma quando mi sveglierò da questo incubo?

Sono terrorizzata.. Non vivrò.. voglio scappare, voglio urlare! Non voglio morire.. non voglio!"

Quel pomeriggio mi segnò profondamente, non riuscii  ad avvicinarmi più a quel medico. Non era la strada giusta per me, non sarebbe stato lui a restituirmi la vita.

A distanza di tempo ripenso a quel ricordo con tristezza, ma senza rabbia. Mi rendo conto che qualsiasi  operatore è prima di ogni cosa un essere umano, con fragilità e debolezze, con un vissuto alle spalle che non sempre possiamo valutare.

Chi sceglie di lavorare a contatto con persone che affrontano una malattia deve però avere una marcia in più, deve costantemente lavorare per non perdere di vista il lato umano, per non rendere meccanici e freddi i momenti dedicati alla comunicazione.