(Volontariato)

(Volontariato)

  • di Redazione
  • 27 Aprile 2020
  • (Parole tra parentesi)

Torna l’appuntamento bisettimanale del martedì che ci regala le profonde riflessioni sul volontariato dell’amica amica Monica Badas

E’ un'attività di aiuto gratuito e spontaneo verso persone in condizioni di indigenza o che necessitano di assistenza. Se ripercorro a ritroso la mia vita penso che il volontariato sia sempre stato parte del mio DNA, probabilmente perché respiravo in casa, la dimensione dell’aiutare "l’altro". Durante l’infanzia mia nonna è stata il primo esempio. Era una donna in miniatura, alta appena 1 metro e 50, ma dal carattere forte e dolce. Di lei mi ha sempre affascinato il fatto che fosse una delle prime donne agli inizi del 900 a lavorare alle poste e che fosse veloce con il telegrafo e con la lettura dell’alfabeto morse. All’epoca si lavorava in casa, tutte le attività erano a conduzione familiare, non si viveva di cose superflue, andare a scuola era un lusso e il sabato si passava in famiglia. Di lei ricordo l’odore del pane appena sfornato e dei dolci tipici sardi, i pacchettini da distribuire in occasione della Pasqua o del Natale e i cesti con pane, zucchero e caffè da regalare alle famiglie più in difficoltà del vicinato e la sua frase "aiuta e non dimenticare l’aiuto ricevuto". Durante l’adolescenza c’è stato l’esempio di mia mamma. Era una insegnante della scuola elementare e veniva da una famiglia di contadini che non navigavano nell’oro. Era riuscita a studiare grazie alla borsa di studio ricevuta nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore. Per lei insegnare era un privilegio e una opportunità, uno di quei doni che la vita ti fa e che non puoi che accogliere come una benedizione. Una volta andata in pensione ha continuato a insegnare nel reparto di pediatria come volontaria ai bambini che avevano una lunga degenza ospedaliera. All’età di 8 anni frequentavo gli scout, da adolescente il gruppo giovanile della Parrocchia, tutti ambienti dove nel mio piccolo facevo qualcosa per gli altri. Crescendo il " tempo per gli altri" è diminuito: prima gli studi, poi il lavoro, la famiglia e il tempo condiviso per rimanere con gli altri senza chiedere nulla in cambio è sparito. Quanta inquietudine sentivo dentro di me durante quegli anni. Mi mancava qualcosa che mi facesse star bene, qualcosa che mi riempisse il cuore e mi facesse gioire. Conoscete quella sensazione di pienezza che ti rimane dentro il cuore e la mente per giorni e ti ricarica e ti fa andare avanti continuando a voler dare e fare? Nel 2008, in seguito a un incidente, conosco lo shiatsu e l’Accademia. Ancora al primo anno mi inserisco in un gruppo di operatori che facevano volontariato in diversi ambienti: una casa famiglia, un'associazione di ragazzi e adulti diversamente abili, il carcere minorile, il reparto oncologico del Policlinico e infine l’ospedale Businco di Cagliari. Ho iniziato così a praticare sui bambini, a interagire con i ragazzi diversamente abili e a trattare i pazienti oncologici. "L’Angolo delle fate" così si chiama il progetto che l’Associazione Sinergia Femminile è riuscita a creare all’interno dell’ospedale oncologico di Cagliari nel 2014. Le fate sono le volontarie che settimanalmente si recano all'Hospice e nel reparto di oncologia medica dell’ospedale Businco per regalare alle pazienti in attesa di fare le terapie, momenti di conforto e condivisione: trattamenti shiatsu, riflessologia plantare, make- up, cucito creativo, tisaneria. Avete idea di cosa sia una mattina nel DH? Significa arrivare alle 6 del mattino per poter prendere il numero magari dopo ore di viaggio, fare l’accettazione, i prelievi, la visita dall’oncologa per poi aspettare ancora e ancora per poter fare la chemio. La mattinata è scandita da un "BIP" che indica la successione dei numeri sul display. Ma dietro ogni BIP e ogni numero c’è una persona, ognuna con la propria storia personale, le proprie paure, il proprio malessere, le emozioni, i sogni e la progettualità interrotta dalla malattia e chiede solo una cosa essere sostenuto e ascoltato. Nel mio operare come "fata" 

mi sono sempre avvicinata alle donne in sala d’attesa in punta di piedi, ignara di cosa volesse dire attraversare il tempo della cura, di comprendere cosa si provasse a vivere la malattia e mi sono sempre chiesta che cosa potessi fare per aiutarle in un momento così delicato della loro vita. Ciò che ho sempre colto negli sguardi di chi si affidava alle mie mani era una luce speciale negli occhi, la luce di chi si attacca alla vita, di chi non permette alla malattia di portarle via i sogni, la progettualità. Poggiavo le mani sulla persona e lasciavo che trovassero la loro strada rendendomi conto, trattamento dopo trattamento, che stavo ricevendo molto di più di quanto stessi donando. Alla fine del 2014 non ero più solo un volontario, una fata all’interno del progetto, ma un paziente oncologico. Ripercorrendo a ritroso quei mesi posso dirvi che ho apprezzato ancora di più la presenza dei volontari. Ho ricevuto i trattamenti, sono stata truccata durante l’attesa della chemio, ho cucito e fatto lavoretti. Ora continuo a essere una "fata", non dimentico il " bene ricevuto", porto con me l’esperienza di paziente oncologico e posso trattare e sostenere. Se qualcuno dovesse chiedermi "perché lo fai?" risponderei semplicemente con questa frase "L’UNICA COSA IMPORTANTE QUANDO CE NE ANDREMO, SARANNO LE TRACCE D’AMORE CHE AVREMO LASCIATO."