Sedazione profonda e accanimento terapeutico

Sedazione profonda e accanimento terapeutico

  • di Redazione
  • 1 Maggio 2018
  • Rita, poesie e non solo

Ritorna l'appuntamento del martedì con la rubrica curata dalla nostra amica Rita Meleddu 

La recente storia del piccolo Alfie dal drammatico epilogo, porta alla ribalta la questione annosa dell'accanimento terapeutico. Conosciamo tutti la storia di Alfie, il bambino inglese affetto da una malattia degenerativa sconosciuta che lasciava ben poche speranze di vita. La questione però è un'altra.  I medici prima e i giudici dopo hanno sentenziato che si dovesse porre fine alla vita del piccolo perché inguaribile e avviato a una simil vita carica solo di sofferenza.  I genitori com'è naturale si sono opposti con tutte le loro forze.  Volevano che il loro piccolo vivesse e hanno smosso mari e monti, soprattutto hanno mobilitato l'opinione pubblica. Hanno chiesto l'aiuto dell'Italia che ha concesso ad Alfie la cittadinanza italiana. Gli ospedali italiani "Bambin Gesù  di Roma e il Gaslini di  Genova erano pronti ad accoglierlo per tentare nuove vie sperimentali di cure, ma non è valso a niente.  La legge inglese ha vinto. Alfie è stato staccato dai macchinari che lo tenevano in vita e piano piano è andato via. Ora umanamente sto dalla parte dei genitori.  Ritengo che nessuno possa arrogarsi il diritto di spegnere la vita di un essere umano e da genitore avrei lottato con tutte le mie forze. Ma crediamo o siamo certi che Alfie non stesse soffrendo oltre misura? E allora dove inizia l'accanimento terapeutico, ossia il prolungamento di cure di provata inefficacia in relazione al beneficio?
In altre parole, vale la pena insistere sapendo non solo che le cure o i trattamenti eseguiti non portano giovamento ma anzi sofferenza? Non sono questioni da poco. Dove sta la verità? Si sarebbe dovuta dare ad Alfie un'altra opportunità (il cuore dice di si) o sarebbe stato solo un prorogare una sofferenza grande? Chissà qual è la risposta e dove sta il vero. 

Suicidio assistito e sedazione profonda

Spesso vengono confusi ma sono due cose completamente differenti.  Il suicidio assistito è un atto compiuto dal paziente, che sceglie o almeno prevede in che modo morire, con l'aiuto di altre persone.  In Italia è reato e infatti i pazienti che vedendo davanti a loro la prospettiva di vivere ormai una vita ingestibile, decidono di recarsi all'estero, spesso in Svizzera che apre le porte anche agli stranieri e porre così fine alla propria condizione intollerabile. Nel suicidio assistito il paziente deve assumere una dose letale di farmaci. L' ultimo gesto tocca a lui.  Se il paziente è impossibilitato a farlo, i medici non possono aiutarlo.
Cos'è invece la sedazione profonda.  Innanzitutto bisogna dire che non è per tutti.  Ma devono sussistere delle condizioni che la permettano, che sono: stadio terminale, in media tre giorni prima della morte in poi e sintomi non più gestibili dai farmaci. Naturalmente occorre competenza nel somministrare le cure palliative. Solo medici specialisti possono proporle e metterle in pratica. In pratica la persona ormai resistente ad ogni terapia viene sedata,  praticamente addormentata come durante un'anestesia e perde coscienza del dolore.  Come dicevo, spesso si fa confusione fra suicidio assistito e sedazione profonda.  Ma sono due cose completamente diverse. 

Nel suicidio assistito si sa già che si sta togliendo la vita.  Una vita che se non interrotta dal suicidio potrebbe essere ancora più o meno lunga. Nella sedazione profonda la morte avviene quando deve avvenire.  Il paziente viene accompagnato ad essa togliendo però sofferenza e percezione del dolore. È una buona morte per così dire. Nessuna persona dovrebbe soffrire mentre invece purtroppo le malattie oncologiche e non solo, hanno spesso la caratteristica soprattutto in fase terminale, del dolore ingestibile e insostenibile. Bisogna anche dire che spesso il malato nella fase finale della sua vita, si trova presso la propria abitazione, assistito da parenti o amici che spesso per non dire sempre, sono impreparati a gestire queste situazioni e ciò provoca sofferenza nel malato e in chi lo assiste impotente. Le assistenze domiciliari attuali fanno sì che figure professionali  come oncologi, medici anestesisti e infermieri si avvicendino al capezzale del malato; ma naturalmente non possono garantire una copertura di 24 ore e allora paziente e famigliari devono soffrire e arrangiarsi.  Questo non accade negli Hospice o nelle strutture preposte dove i pazienti terminali o comunque con gravi problemi, sono seguiti davvero con amore 24 ore su 24. 
Recentemente ho visto alla televisione un servizio proprio su queste strutture che si occupano delle persone giunte alla fine della propria vita. I  pazienti vengono accompagnati amorevolmente alla fine dei loro giorni, ma capita che delle volte si riprendano e vivano ancora a lungo. Una cosa mi ha colpito di questo servizio.  Alle porte delle camere di degenza non era appeso un numero ma una targa col nome della persona che in quel momento occupava la stanza. Una nota di umanità e delicatezza fino alla fine...